Diagnosi: artrite reumatoide. La storia di Alessandra

La diagnosi spesso tardiva, l’impatto con la cronicità, la rete di affetti che non sempre è di supporto, sono elementi comuni a molte persone con patologia reumatologica. Ci racconta la sua storia Alessandra, paziente con artrite reumatoide e Presidente A.MA.R. Umbria, Associazione pazienti che fa parte di ANMAR.

Ringraziamo Alessandra per aver condiviso la sua storia con Genere Donna.

L’inizio: una diagnosi sbagliata

La mia storia inizia nel 2003 con una diagnosi di primo acchito sbagliata e una serie di cure errate che mi hanno portato al peggioramento della malattia. La diagnosi definitiva di artrite reumatoide, purtroppo doppio positiva, arriva nel 2005.

L’impatto con la cronicità

Il primo problema è stato proprio l’impatto emotivo: avevo 32 anni e l’idea di essere affetta da una malattia cronica che non sarebbe più guarita non è stata facile da accettare. Subito dopo è venuto il problema di trasportare il tutto all’interno del mio quotidiano l’impatto a livello professionale. Lavoravo come cameriera piani in un albergo e quindi le prime difficoltà furono quelle di gestire il mio corpo come avevo sempre fatto fino a quel momento.

L’ho vissuto all’inizio come una tragedia perché quando non si sa bene che cosa hai, quando le persone non sanno di che cosa soffri, pensano di sapere tutto per sentito dire ma in realtà non sanno nulla. Sentivo il bisogno di essere tutelata, di ricevere appoggio, invece all’inizio ho ricevuto diffidenza, non ero creduta, ho visto messa in dubbio la mia sincerità sulle difficoltà che stavo attraversando.

Mi stavo comportando in maniera diversa, proprio perché il mio corpo non rispondeva, ma i miei non erano reumatismi, la mia stanchezza non era “normale”, non rientravo nei luoghi comuni dai quali ero circondata. Questo è stato un periodo bruttissimo, mi sono sentita anche in colpa, non riuscivo a comunicare la mia diagnosi a chi mi stava vicino.

La vita associativa

Poi ho cominciato a frequentare il reparto dove sono stata presa in cura ho conosciuto persone che stavano vivendo la mia stessa esperienza, nello stesso modo in cui la stavo vivendo io. Abbiamo avuto l’idea di creare una piccola associazione: sapevamo che ce n’era bisogno. All’inizio era tutto piuttosto informale, era più un ritrovarsi per parlare, un momento di sfogo, di condivisione di consigli per gestire il quotidiano. I nostri incontri ci davano sempre più gusto e, senza rendercene conto del tutto, ci stavamo aprendo la strada per una nuova normalità.

Nel 2005 ci siamo iscritti ad ANMAR nazionale e lì si è aperto un mondo. Capisci che tutto non si limita soltanto a quella tua piccola cerchia di persone, ma tutto si moltiplica.

Abbiamo iniziato a lavorare, a capire dove volevamo andare, a fare dei progetti. Ma, soprattutto, abbiamo sentito il bisogno di manifestare tutti insieme, rendere pubbliche le problematiche che stiamo incontrando, cercando di dare voce, di dare una spiegazione e di istruire tutte le persone attorno a noi su quello che significa essere diversamente abile con una malattia reumatica.

La disabilità invisibile

Il punto è proprio questo: far capire cosa significa essere disabile con una malattia che non si vede.

Quando una persona vede un’altra sulla sedia rotelle, allora dice: “quella è disabile”. Quando però una persona cammina o si trucca o cerca di avere cura di se stessa, troppo spesso si pensa che quella persona è un’imbrogliona, sta solo cercando di attirare l’attenzione. Quindi l’obiettivo è anche di dare questo forte messaggio sulle “disabilità invisibili”. Il messaggio deve arrivare non soltanto ai non addetti ai lavori (familiari, amici, colleghi): purtroppo abbiamo tutti constatato che deve arrivare alle persone che sono chiamate a stilare delle leggi, ai capi, ai dirigenti sanitari che sono chiamati ad organizzare la sanità. Riguarda i medici, che non sempre riescono ad individuare di primo acchito il problema delle malattie reumatiche.

Non dimentichiamo che la reumatologia è una disciplina molto recente, per anni le patologie reumatologiche sono state curate da diverse figure: prima si andava dal medico di medicina generale, che ti rimandava all’ortopedico… Quindi l’iter per capire che non si trattava di un reumatismo o di un problema meccanico o di tipo autoimmune talvolta poteva essere lungo e complicato, prima di arrivare a una diagnosi corretta.

Trovare l’equilibrio nella nuova normalità

Se dovessi dare un consiglio a chi si è ammalato direi questo: non sempre i cambiamenti della vita sono necessariamente negativi. A volte noi associamo il senso della malattia, il senso della non guarigione a qualcosa di estremamente anormale perché nella nostra società si ha un’idea definita della normalità. Questa esperienza mi ha portato a rivalutare questa idea e il significato di questo termine.

Nella realtà, il problema vero è quello di non avere dolore, cioè trovare innanzitutto la cura adatta e un equilibrio psicofisico. Dopodiché, si adatta il percorso della vita. Nel momento in cui si stabilisce un equilibrio psicofisico si entra in una nuova normalità e non è detto che per forza debba essere negativa. A volte potrebbe essere anche stimolante, come lo è stato per me nella collaborazione all’attività dell’associazione internazionale.

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