La competenza del paziente: un valore da riconoscere

Con Maria Beatrice Toro

A quasi tutti i pazienti, prima o poi, viene chiesto di partecipare a ricerche cliniche, che, come è noto, sono fondamentali per capire la natura di una malattia e trovare nuove opzioni di trattamento. Viene chiesto, per esempio, di compilare diari clinici, specialmente durante l’utilizzo di un farmaco innovativo. E talvolta si è chiamati a  rispondere a questionari, o a effettuare colloqui strutturati finalizzati a valutare l’efficacia delle terapie.

In tempi recenti, viene giustamente indagata anche la qualità della vita, per poter trovare soluzioni che aiutino e sostengano nei periodi più complicati, in cui si presentano più intensamente dolore o affaticamento. Un ultimo aspetto che viene frequentemente indagato è l’entità della ricaduta psicologica della convivenza con la malattia, nel breve, medio e lungo termine. La qualità del vissuto, infatti, incide moltissimo sull’aderenza alle cure.

Di solito, queste ricerche sono progettate in campo accademico. Tuttavia, da più di un decennio, e specialmente dal periodo pandemico, sono aumentati gli studi in cui i pazienti e i loro familiari vengono coinvolti in ogni fase della ricerca, a partire dalla progettazione e dalla formulazione delle ipotesi.

L’esempio più evidente di ipotesi clinica generata dai pazienti è quella sul Long Covid: un termine che è stato, letteralmente, creato da persone comuni, e che si è poi dimostrato una realtà a sè stante oggi riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Estendiamo la definizione di “comunità scientifica”

Perché non incominciare, allora, ad estendere la definizione di “comunità scientifica” comprendendo, ognuno nella sua specificità, tutti coloro che mettono a disposizione la loro esperienza per offrire dati e idee? Si tratterebbe di un riconoscimento del ruolo fondamentale che chi convive con la malattia può assumere, diventando attivo protagonista in quanto esperto della propria condizione, che può fare luce su aspetti poco identificabili da chi non l’ha sperimentata in prima persona. Non è stato infatti un caso se grazie a un movimento internazionale di pazienti è stata evidenziata sistematicamente una serie di sintomi Covid a lungo termine, che persistevano dopo la negatività a tutti i test. Nuovi approcci sono stati resi possibili e nuove cure predisposte, in un cambio di paradigma in cui medici e persone comuni sono coinvolti insieme nel processo di affinamento del sapere su una determinata condizione.

Il coinvolgimento dei pazienti e delle loro famiglie come partner nel processo di ricerca è un orizzonte importante: consente di prendere in considerazione (e rendere centrali) le priorità identificate da chi è in prima linea.  Nella vita del paziente, infatti, ci sono un “prima” e un “dopo”, segnati non solo dalla diagnosi e dalle cure, ma dalla convivenza con una serie di situazioni quotidiane nuove e sfidanti, laddove l’attenzione alla qualità della vita è acutamente percepita come ciò che davvero può fare la differenza. Sembra ragionevole riconoscere il fatto che chi soffre per una patologia conosca minuziosamente la sua realtà e, inevitabilmente, finisca per comprendere in modo molto sottile segnali del corpo e bisogni emergenti. In particolare, spesso i pazienti hanno intuizioni importanti su cosa potrebbe essere più vantaggioso per il loro quotidiano.

Armonizzare le intuizioni dei pazienti con il sapere medico

La sfida che abbiamo davanti è ora quella di armonizzare le intuizioni dei pazienti con il sapere medico, poiché, in ultima analisi, essi hanno in comune il medesimo obiettivo: curare la sofferenza o almeno alleviarla.

I punti di vista non sono dunque contrapposti, ma, come è naturale, ci sono differenze di sensibilità. Nel riconoscimento rispettoso delle specificità, questi saperi possono operare in sinergia, lasciando che l’elemento medico e quello umano abbiano entrambi la dignità che meritano.

Condividi l'articolo

ARTICOLI CORRELATI